Qualche considerazione sul presente e sul possibile futuro
Man mano che la situazione si “evolve”, man mano che il nostro agire viene corretto dalle scelte di chi governa e dalle nostre in base all’esperienza che facciamo, man mano che si va avanti misurando anche le fragilità personali e collettive, emergono riflessioni, ipotesi, progetti, speranze che sono anche un modo per reggere le deprivazioni a cui siamo e ci siamo sottoposti oltre all’ansia per un futuro difficile da prevedere.
Nel nostro canale YouTube, nella playlist “Parole a Distanza”, si trovano già spunti, riflessioni, auspici di molti nostri colleghi, studiosi, docenti, consulenti, che meritano di essere ascoltati non solo per le loro competenze, ma anche per la loro sensibilità umana e sociale. Molti altri verranno nei mesi a venire. Dovremo fare scelte corrette ed equilibrate. Evitando un orizzonte troppo corto e una reazione schiacciata sul qui e ora.
Ci sono cose però, di cui varrebbe la pena parlare. Fanno parte di quella tipologia di riflessioni che alcuni possono considerare poco rilevanti. In condizioni di “normalità” perché “ci sono cose più importanti”. In condizioni di emergenza perché “ci sono cose più importanti”.
Ne accenniamo alcune. Oltre le tante, tantissime che ci vedono impegnati come cittadini, amministratori, dirigenti etc…etc…
La prima: ritardo percettivo. C’è una tendenza umana a negare la realtà, soprattutto quando drammatica, fino ad esserne travolti. Un esempio storico: gli ebrei e spesso i governanti dei paesi democratici, che non credettero che l’orrore fosse possibile con Hitler e i suoi accoliti. “Non è possibile, non può succedere a me, non può succedere a noi”, era il sentimento diffuso. Alcuni guardarono in faccia la realtà, chiamarono le cose con il loro nome e si salvarono agendo di conseguenza. Ma spesso le persone che rischiavano non erano in condizioni di mettersi in salvo. Meglio adottare, allora, una “teoria” di comodo, rassicurante. Sostenibile psicologicamente. Molti clamorosi fallimenti di imprese raccontano dello stesso meccanismo. Si ignorano i segnali, si nega la realtà, fino a svegliarsi un mattino con i dipendenti che se ne vanno con i loro effetti personali di lavoro, soci e azionisti talvolta sul lastrico, comuni cittadini distrutti per aver perso i pochi risparmi di una vita. Stessa cosa accade nelle famiglie, nei rapporti interpersonali. Non può essere che un genitore abusi del figlio. Si sa, ma non si sa. Una zona grigia nella quale si nega, a volte, anche l’evidenza, troppo dura da accettare. Questo, uno dei tanti esempi possibili delle dinamiche, anche meno drammatiche ma non meno dolorose, che possono accadere nella vita intima delle persone (un tradimento, una storia che finisce, per fare qualche esempio). Succede poi a livello collettivo: i cambiamenti climatici ormai sono evidenti, le conseguenze chiare (possibile collasso delle nostre civiltà, possibile estinzione della specie umana) ma la cosa non ci “tocca”. Non siamo in grado di invertire la rotta. C’è voluto un virus per smettere (temporaneamente) di fare cose che nessun governo, nessuna impresa, nessuno di noi si sarebbe mai sognato di decidere, come il blocco delle attività produttive. Con conseguenze sugli ecosistemi sorprendenti anche per velocità di recupero.
Gli esempi, individuali, storici, quotidiani di questa negazione della realtà e delle sue conseguenze sarebbero infiniti. Il coronavirus però, è l’esempio più recente e attuale. Il ritardo con cui tutti, in tutto il mondo, hanno compreso il rischio da coronavirus, ci riguarda non solo dal punto di vista clinico. La cronaca, anche della nostra quotidianità, sottolinea quanto sia necessaria la comprensione dei fattori psicologici, sociali e organizzativi che rendono possibile la sottovalutazione e la negazione dei dati di realtà in ogni possibile ambito.
La seconda. Ci stiamo occupando, anche noi di Scuola Coop, di rileggere, trasformare e ridefinire ruolo, contenuti e metodi della formazione. Una riflessione che non nasce ora. Però: la formazione, per chi la intende come “corsi di formazione”, quella che serve a “trasferire”, conoscenze e abilità, va bene su alcune materie e in ambienti stabili. Va bene quando si parla di formazione e aggiornamento tecnico professionale, di cui c’è e ci sarà sempre bisogno. Ma è solo una parte di ciò che ci serve. Il nostro ambiente non è stabile. Non lo è quello ecologico. Tanto meno quello economico. Per non parlare delle conseguenze sociali, per lo più imprevedibili, che però ci stanno procurando ansia perché sappiamo che non stiamo per intraprendere una passeggiata. Dobbiamo allora rafforzare e pensare a nuove forme di apprendimento. Contesti in cui il sapere lo si crea piuttosto che riceverlo preconfezionato. Perché i problemi inediti non possono essere affrontati con le soluzioni già disponibili, anche se rassicuranti. Le esperienze non mancano, da noi e in giro per il mondo. Ed erano già fruttuose. Ora sono una necessità. Perché è una necessità l’immagin-azione, che è contemporaneamente un metodo e un modo di stare insieme. Un modo di concepire il lavoro e il proprio contributo ad un mondo di cui desideriamo essere parte attiva e non solo esecutori. L’immagin-azione, inoltre, come antidoto alla mancanza di fiducia nel futuro che tradotto in termini di psicologia individuale, significa depressione.
La terza. Si affronta la realtà, anche nei suoi fenomeni inediti, con i pensieri, le idee, le parole, le esperienze che abbiamo a disposizione. È accaduto anche per questa emergenza. La metafora per niente eterea e molto concreta che invece è dilagata in questo periodo è quella della guerra. Ma non è una novità. Il nostro immaginario sociale era già costellato di parole di guerra. In economia, nelle imprese, nella politica. A mettere in fila le parole belliche che caratterizzano la nostra società (eroi, prima linea, seconda linea, competizione sempre più agguerrita, conquista di nuove quote di mercato e via discorrendo, l’elenco sarebbe lungo) sembra di essere in perenne condizione di guerra. La pericolosità intrinseca dell’uso di questa metafora dovrebbe essere evidente: rende accettabile la possibilità di guerre vere.
Si tratta di parole che possono eccitare l’ego e motivare all’azione, ma così si occulta il fatto che c’è sempre un contro implicito che divide e alimenta cattive relazioni. Le parole belliche ci schiacciano dentro un immaginario monotematico che non solo è inadeguato ad affrontare i problemi, ma è di per sé uno dei problemi. La politica, in particolare, sembra essere spesso una cattiva maestra. Ma parole di guerra sono anche nella nostra vita privata, nelle famiglie, tra le coppie, nel rapporto genitori figli. Siamo costantemente forzati verso un mondo fatto di amici/nemici, perdenti/vincenti. Glorifichiamo l’ego quando la complessità della situazione, l’incertezza del futuro, i già seri guai che abbiamo provocato con le nostre scelte e il nostro modello di sviluppo, potrebbero ragionevolmente indurre ad abbassare i toni e a sgonfiare i muscoli. Possiamo vivere, lavorare, fare amicizia, cultura, arte, raggiungere risultati sociali ed economici insieme, senza necessariamente abitare un contesto di guerra.
Usiamo poche parole quando invece ne avremmo a disposizione molte. Parole che ci pensano e che denotano i limiti delle nostre azioni. Le parole sono costitutive della nostra vita sociale e delle nostre organizzazioni, nelle quali i nostri sentimenti e le nostre azioni acquistano senso. Non sono una cosa a parte. Non ci sono organizzazioni, persone e… poi le parole. La cosa ci riguarda tutti. Ma come cooperatori e cooperatrici dovremmo scoprire e forse inventare parole nuove che facilitino la condivisione, la collaborazione, la sinergia, valorizzando la ricchezza delle singolarità.
Enrico Parsi